Disturbi della personalità: intervista al Dott. Saverio Palumbo
Quali sono le principali caratteristiche dei disturbi della personalità?
Secondo i manuali diagnostici i disturbi di personalità sono un modello di esperienza interiore e comportamentale rigido e maladattivo che devia marcatamente nei confronti delle aspettative della cultura di appartenenza e si manifesta in almeno 2 delle seguenti aree: Cognitività (cioè il pensiero), Affettività (il mondo emotivo), Funzionamento interpersonale (le relazioni) e Controllo degli impulsi.
Questo modello maladattivo deve:
- manifestarsi in vari contesti interpersonali;
- determinare disagio soggettivo clinicamente significativo e/o compromissione del funzionamento familiare, sociale e lavorativo;
- esordire in adolescenza o nella prima età adulta;
- non essere meglio compreso come manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale o fisico.
Quali sono le cause sottostanti ai disturbi della personalità e in che misura influenzano la vita quotidiana e le relazioni interpersonali delle persone colpite?
La misura del condizionamento sull’esistenza quotidiana e sulle situazioni interpersonali deve essere di necessità molto marcata, come è nella definizione generale del disturbo appena enunciata.
Più che di “cause” nel senso deterministico del termine, sarebbe meglio parlare di fattori favorenti, di condizioni di rischio: in tal senso, non si può che fare riferimento ad un paradigma multifattoriale che va dalla biologia (genetica ed epigenetica) alle esperienze infantili precoci, all’affronto più o meno problematico delle tappe evolutive, alle relazioni parentali (in special modo quelle con i genitori e le figure di accudimento), al percorso scolastico, al rapporto con i pari, all’attività lavorativa, comprese eventuali esperienze traumatiche. Insomma, tutto ciò che va a forgiare la nostra personalità, appunto, nel bene e nel male.
Come vengono diagnosticati i disturbi della personalità?
I principali manuali diagnostici distinguono 3 raggruppamenti o cluster:
A) Il gruppo più vicino ai disturbi psicotici e comprendente: il paranoide (contraddistinto in modo precipuo da diffidenza e sospettosità), lo schizoide (caratterizzato da una modalità pervasiva di isolamento e povertà emotiva) e lo schizotipico (in cui si evidenziano distorsioni cognitive e percettive nonché aspetti di eccentricità);
B) Qui troviamo il narcisistico (dove si nota la grandiosità, l’accentramento su di sé e la mancanza di empatia), l’istrionico (in cui la drammatizzazione emotiva prende il sopravvento), il borderline (il più famoso, molto citato anche nei film e nelle serie tv, individuabile nei tratti di instabilità identitaria ed emotiva, nonché di impulsività), l’antisociale (in cui si distinguono la prepotenza, gli atteggiamenti provocatori, la violazione delle regole di convivenza, la litigiosità);
C) Dove si annoverano l’evitante (segnato da senso di inadeguatezza e timidezza eccessiva), il dipendente (definito da forte insicurezza e bisogno di sostegno), l’ossessivo-compulsivo (i cui tratti più rilevanti vanno scorti nella meticolosità e nel perfezionismo).
Citerei anche il NAS (Non Altrimenti Specificato: quando non si possiedono informazioni sufficienti per essere più precisi, oppure nei casi in cui si stanno rilevando all’osservazione clinica tratti disturbati di personalità, ma non inquadrabili perfettamente nell’uno o nell’altro disturbo prima enucleato) e quello di Altra Specificazione (quando si riscontrano caratteristiche miste attribuibili a più di un disturbo categorizzato). Si nota infatti che gli operatori stanno rilevando con sempre più frequenza nei servizi di salute mentale tali quadri diagnostici meno caratterizzati, proprio perché si fa fatica a inquadrare le manifestazioni di disagio nelle categorie nosografiche classiche, specie tra le giovani generazioni.
Quali sono gli approcci terapeutici più efficaci per gestire e trattare tali disturbi?
Gli approcci terapeutici per il trattamento dei disturbi di personalità, validati scientificamente attraverso le prove di efficacia, sono piuttosto numerosi e sempre più sofisticati, ma si sta creando un problema: una tecnica terapeutica buona per il disturbo borderline si rivela meno efficace nei confronti ad esempio del disturbo schizotipico. Per chi come me ha lavorato in un servizio territoriale pubblico di salute mentale, deputato a curare un’ampia gamma di disagio, diventa particolarmente difficoltoso specializzarsi in tutte le tecniche. Comunque gli studi dimostrano anche che la cura personalizzata, flessibile e adattabile al paziente concreto che si ha davanti, si sta rivelando parecchio efficace. In altri termini, si sta sempre più diffondendo la pratica della taylored therapy, la terapia sartoriale che costruisce l’abito su misura, la quale richiede profonda conoscenza scientifica e costante aggiornamento, al contempo grande capacità di coniugazione del paradigma scientifico alle situazioni concrete per certi versi sempre uniche e a rigore irripetibili. Non è solo una questione di disponibilità finanziaria che magari non consente al paziente di aderire ad un programma di sedute a cadenza settimanale (laddove ciò è richiesto dai protocolli), nel servizio pubblico ad esempio spesso la partecipazione alla spesa non è contemplata, se non talvolta in minima parte; le difficoltà possono insorgere più a livello dell’organizzazione degli incontri, causa una varietà di fattori: la distanza dalla sede, la scarsa capacità nell’utilizzo degli strumenti informatici nel caso della tele-psicologia, gli orari lavorativi non compatibili, gli impegni familiari, etc.
Quindi direi: ogni clinico è giusto che aggiorni costantemente il proprio percorso formativo e tenti di giocarselo al meglio con la situazione concreta che ha davanti, facendo pure tesoro del bagaglio esperienziale che accumula progressivamente nel corso della sua attività professionale. Si favorisce così una relazione di cura all’interno della quale si tenta di utilizzare al meglio il sapere di cui entrambi – curato e curante - sono in possesso, un sapere derivato dall’esperienza di sofferenza, da un lato, e da un altro un sapere proveniente dalla ricerca scientifica e dalla pratica di cura, al fine di cercare nuovi equilibri mentali, emotivi e comportamentali in grado di reggere al meglio le sfide quotidiane che il reale ci pone costantemente, tante volte in modo del tutto imprevedibile.
Qual è l'importanza della consapevolezza e dell'educazione pubblica per ridurre lo stigma associato ai disturbi della personalità e favorire un ambiente più comprensivo?
Sicuramente la consapevolezza è importante perché aiuta ad alimentare il senso di discernimento, peraltro impegnativo da praticare anche per gli specialisti, al fine di stabilire ad esempio quanto una condotta anomala dipenda dalla cattiva volontà (quindi attinente piuttosto alla moralità che richiede responsabilità) oppure dal disturbo: ad esempio, è depresso (cioè interiormente costretto a vivere un certo stato mentale), è pigro (cioè avrebbe facoltà di comportarsi diversamente e non lo fa) o si ritrova in una situazione mista? Si intuisce che la reazione altrui, adeguatamente avveduta di tale realtà, non dovrebbe essere sempre e comunque la medesima a prescindere dalla valutazione della situazione specifica. L’educazione pubblica dovrebbe favorire il senso di discernimento e le conseguenti condotte più idonee.
Un ambiente familiare, sociale e lavorativo più comprensivo è perciò certamente da auspicare, senza tuttavia scadere nell’indulgentismo ad oltranza fino a pervenire al giustificazionismo di ogni atto non idoneo, perché “si è border” ad esempio; non si dirà mai a sufficienza che le diagnosi sono descrizioni di una certa forma di disagio, non spiegazioni della condotta, che invece vanno ricercate – come si affermava in risposta alla seconda domanda – nelle vicissitudini bio-psico-sociali delle esistenze personali.
Occorre sviluppare pure un’attenzione verso l’autostigma, vale a dire nella tendenza, specie nelle giovani generazioni ma non solo, ad utilizzare il disturbo in modo identitario, “mi chiamo tal dei tali e sono border”, risolvendo così la propria personalità nel disturbo di personalità, fino a precludere un possibile percorso di presa di distanza dal medesimo. In sostanza, da una parte si tende a disconoscere il disturbo di personalità in quanto assimilabile al proprio carattere (“sono fatto così, perché dovrei andare in terapia?”), dall’altro quando viene riconosciuto diventa “causa” del proprio o altrui comportamento (“faccio così perché sono border, che ci posso fare?”) fino ad annichilire una presa di responsabilità della condotta personale che, invece, quando esercitata dovrebbe portare ad un impegno per il miglioramento di sé, almeno tentativamente, certo con il supporto delle dovute cure. Non si tratta di “riprogrammare” il proprio carattere attraverso la terapia, se sono un pero non posso essere trasformato in fico (metafora botanica che utilizzo spesso, facilmente comprensibile), quanto piuttosto di smussare gli angoli e potare gli eccessi (restiamo nell’immaginario agricolo); talvolta basta imparare a gestire i tratti disturbati, intanto che il lavoro terapeutico è stato intrapreso, e si possono notare i benefici già a breve termine.
In che modo la ricerca scientifica sta contribuendo alla comprensione e al trattamento dei disturbi della personalità, e quali sono le prospettive future per migliorare l'approccio a tali condizioni?
Certamente la ricerca scientifica sta dando un enorme contributo e gli sviluppi appaiono quanto mai promettenti, ma occorrerebbe vigilare su quanto le conoscenze specialistiche possano essere opportunamente diffuse al punto da essere bene amalgamate nel sapere comune fino ad evitare quelle distorsioni a cui si accennava nella risposta alla precedente domanda. In altre parole, la ricerca scientifica mi sembra stia procedendo molto speditamente; la difficoltà maggiore mi pare di riscontrarla nell’acquisizione adeguata di tali conoscenze da parte della popolazione in generale. Spero che interviste come queste contribuiscano ad un’idonea divulgazione del sapere.